L’ansia è un’emozione importante per la nostra vita in digitale.
Qui a Officina Microtesti va per la maggiore; Andrea la definisce la nostra emozione guida.
L’ansia è pervasiva, si nutre delle incertezze della vita reale e dei processi online, ha connotazioni specifiche. Oltre alle reazioni fisiche, ha delle conseguenze sul nostro comportamento. Ci spinge a cercare conforto e aiuto dagli altri.
Ma chi sono gli altri in una relazione digitale?
Nella maggior parte dei casi, un messaggio di conferma, delle FAQ, un chatbot di assistenza, o un indirizzo email per rivolgersi virtualmente a una persona in carne e ossa che, dopo aver usato le sue migliori competenze di persona in carne e ossa, ci risponderà attraverso un servizio virtuale.
Fidarsi ed essere soddisfatti da un brand, un servizio o un prodotto dipende dal blocco di emozioni e di pensieri che attraversa la relazione digitale. Le nostre scelte e decisioni sono intimamente connesse alle parole umane, frammentate dentro interazioni brevissime: Google le chiama micromomenti.
E quando l’elemento umano manca, resta la tecnologia.
Tecnologia a prova di persone
Quando parlo di tecnologia con la mia user persona (mia madre, olimpionica di ansia), so già che la considera una cosa da ingegneri, tecnici che fanno cose incomprensibili sulla base della loro visione, il loro modello mentale.
Non lo pensa solo la mia user persona: come utenti abbiamo imparato a decodificare il linguaggio della tecnologia con il nostro modello mentale, costruito con l’esperienza di vita davanti e dietro lo schermo.
Se siamo in ansia, quella distanza di visione emerge dalle profondità come un sommergibile atomico e affonda le nostre certezze.
Le parole digitali diventano all’improvviso impenetrabili, e ci spingono a rifugiarci nella nostra tana: la voce amica di una persona.
Per ripristinare l’autostima delle persone, aumentare la fiducia nel brand, rafforzare le relazioni a lungo termine, abbiamo bisogno allora di una tecnologia umana.
Il magico potere delle parole
Cosa rende tanto speciali gli esseri umani? Lapalissianamente, direi proprio essere umani.
L’empatia, cioè sentire le nostre emozioni, la metacognizione, cioè saper riflettere sui loro e quindi sui nostri pensieri.
Subito dopo la voce, quel megafono di emozioni e pensieri che si manifestano attraverso il magico potere delle parole.
Tutto questo ci fa riconoscere l’altro come simile a noi.
Can’t read won’t buy
Lo dice la scienza: abbiamo paura della tecnologia (testo, microtesto o le emoji di un chatbot) perché can’t read won’t buy.
Se non capisco il tuo linguaggio, non compro. Punto e a capo.
Abbiamo paura perché temiamo di non capire cosa sta accadendo, e quale sia il nostro ruolo nell’interazione col sito o l’app. Più una situazione ci tocca in profondità e svela le nostre emozioni intime, più abbiamo bisogno di un linguaggio informale, quotidiano, rassicurante.
La nostra lingua madre.
Effetto underwear
Renato Beninatto, CEO di Nimdzi lo chiama “the underwear effect“, l’Effetto Abbigliamento Intimo. Io però sono un po’ camionista, e lo chiamerò Effetto mutanda.
Indica tutti quei momenti in cui prendiamo decisioni chattando o navigando dallo smartphone in mutande. Gli studi dicono che quando siamo nudi, fisicamente e soprattutto emotivamente, alla lingua formale preferiamo un linguaggio colloquiale e accessibile, che sia gergo familiare o il nostro dialetto natio.
Per questo motivo lo shampoo in Olanda ha le istruzioni in olandese anche se tutti sanno l’inglese e come si usa uno shampoo.
Dal tecnichese all’umano
Il nostro mestiere di designer di parole ci chiede di adottare una visione del mondo alla portata di tutti.
Scegliere un linguaggio usabile non significa appiattire, ma allargare a una platea più grande, che legge quando è felice, quando è triste e quando è in ansia.
Vuol dire scrivere nella lingua madre anche se tutti parlano benissimo quella ufficiale.
È un lavoro a più livelli: siamo traduttori, perché convertiamo le parole tra due sistemi linguistici – dal tecnichese all’umano, dal formale all’informale.
Siamo localizzatori, perché trasformiamo le parole in contenuti rilevanti e appropriati per le competenze di chi legge, adatti a tutti. Per il bene dell’ansia, del branding, del marketing, della user experience.
Per entrare nelle case e sederci al tavolo delle abitudini dei nostri utenti, dobbiamo diventare localizzatori emotivi capaci di leggere il contesto, e restituire alla conversazione i colori e i profumi più adatti a chi siede accanto a noi.
Per evitare quella sensazione glaciale che renderà i nostri lettori più distanti e diffidenti.
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Foto: Cristian Escobar per Unsplash
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